Dare senso

La cosa succede sotto due condizioni che ho trovato comuni ogni volta: la prima è che si tratta di incontri relativamente poco importanti, incontri con figure di terzo o quarto piano, a cui presento i servizi della mia azienda, con l’obiettivo di ottenere il necessario supporto per incontrare responsabili di più alto livello.

Non è mai accaduto quando al meeting erano presenti personaggi di peso, alti dirigenti e amministratori delegati.

Fare presentazioni di servizi è per me un compito estremamente facile e piacevole, ho iniziato appena laureato, sono entrato in una prestigiosa società di consulenza, e lì ci hanno massacrato facendoci sgobbare quattordici, sedici ore al giorno, sotto enormi pressioni ed in modo del tutto spietato.

Sono anni che faccio presentazioni, normalmente, ogni settimana, ne faccio una decina, conosco il copione alla perfezione, argomentazioni, obiezioni, contro-obiezioni, pause, nessuna incertezza o dubbio possibile, e così posso dedicare tutta l’attenzione alla interazione con le persone.

Sono ritenuto eccellente ed impeccabile, anche se conosco la materia a memoria, ogni volta la ripasso prima entrare in scena, la aggiusto in modo che si adatti il più possibile a chi avrò davanti… la mia compagna mi prende un po’ in giro, mi dice eddai, basta per oggi, no? sei bravo, sai tutto, di che cosa ti preoccupi? Ora godiamoci il film…

Questo mi è di grande aiuto, altrimenti io starei sempre sul pezzo, e non riuscirei a godermi la vita, che è lo scopo di tutto il gioco, e lei è un tesoro… molto diversa da me, molto creativa, libera e indipendente.

Seconda condizione: con me c’è il mio capo, Frank. Quando non c’è va tutto liscio, ma proprio tutto liscio. Invece quando è presente a questi incontri a basso livello arriva il blocco.

Per un po’ non se n’è accorto, mascheravo la cosa con un colpo di tosse, con un sorso d’acqua, pochi secondi… poi la cosa è diventata più evidente, e naturalmente ne abbiamo parlato a fondo.

Per la verità al posto di Frank avrei probabilmente potuto esserci io, ha un paio di anni più di me, e io il lavoro lo conosco e lo faccio meglio di lui… ma per il mio equilibrio di vita, quando si è aperta la possibilità di candidarsi a quella posizione io non ho spinto.

Non dico che se avessi fatto pressione avrei necessariamente ottenuto l’incarico, magari no, ma proprio ho deciso di non spingere: sono in quella azienda da meno di due anni, già il lavoro così come è mi impegnava tantissimo, stavo ottenendo ottimi risultati e forti ricompense, avrei dovuto prendere la responsabilità del lavoro del team (cosa che ho già fatto in passato in altre aziende), ma non mi sentivo prontissimo per il cambio.

Sono stati anni durissimi, estremamente impegnativi, pochissimo tempo per la famiglia, per la fidanzata, per me, e anche Virginia, la mia fidanzata, era d’accordo di non aumentare la pressione… stiamo per sposarci, e anche questo progetto richiede tempo ed energia, sono tante le cose da fare e da preparare.

Stimo molto Frank, siamo molto diversi, e in eccellenti rapporti… solo che mi sembra tempo perso e fatica sprecata, andiamo in giro in due, come due poliziotti, quando io basto e avanzo… e poi mi sembra di tornare indietro, non ho certo bisogno di un controllore, anche se so che lui è obbligato ad accompagnarmi in alcuni meeting con regolarità, è uno degli obiettivi che sono stati assegnati a tutti i capi del suo livello, devono accompagnare i sales manager ad un certo numero di incontri ogni mese.

Lo so, ma ammetto di esserne comunque un poco infastidito, niente di personale, è proprio la cosa in sé.

***

Questo frammento di narrazione fa parte in ampia misura della prima sessione di apertura, alcuni dettagli emergono nella seconda, ne abbiamo più che abbastanza per iniziare la caccia al codice.

Non che mi siano tutti chiari, anche se sono un esperto della materia, mi occorrono “pezzi” su cui lavorare, tempo perché emergano e tempo per connetterli: ma anche con questi pochi elementi a me è possibile intravedere il gioco di alcuni codici, alcuni comuni a tutti gli esseri umani, altri, per così dire personalizzati.

Che io riesca a vederli è certo una buona cosa, ma il punto è che non serve assolutamente a nulla che li veda io, è il mio cliente che deve riuscire a identificarli e “vederli” come guide del suo agire attuale.

Che io sappia quali passi devono essere fatti, presumibilmente, per giungere ad un cambiamento, è, di nuovo, buona cosa, ma anch’essa totalmente inutile: è il mio cliente che quei passi deve compiere per poter modificare i codici (ammesso che sia possibile) che oggi utilizza per governare la sua interazione con gli ambienti con cui ha a che fare.

Non posso farlo al posto suo, non basta certo che gli elenchi e che gli descriva i codici, e che gli descriva i passi da compiere… e dunque, che si fa?

John O. è davanti a me, dando prova della sua disponibilità (provvisoria, e con riserva) ad ingaggiarsi in un lavoro con me, in qualche modo, che ancora non sa, e che probabilmente immagina come un presentare quel che gli succede e aspettare le istruzioni dall’esperto.

Funziona così? Non proprio.

A me è chiaro che otterremo il risultato desiderato, anzi, i risultati desiderati, come si scoprirà in breve, nella misura in cui il mio cliente riuscirà a generare un codice nuovo, per lui, in grado di migliorare l’integrazione della attivazione dei codici di cui già dispone.

Le cose sono come sono, come ci abbiamo a che fare è un altro paio di maniche: i codici sono le guide di come ci abbiamo a che fare, alcuni codici, magari ben sperimentati, ci portano a ottenere quel che ci serve e il correlato piacere (segnalazione inevitabile del nostro sistema proficettivo), altri possono non riuscire, non otteniamo quel che ci serve e otteniamo il correlato dispiacere (segnalazione inevitabile del nostro preziosissimo sistema nocicettivo).

Insomma, è andata bene, siamo contenti (gioia, entusiasmo, contentezza, allegrezza, fierezza, molto piacevoli), non è andata bene, mannaggia (delusione, rammarico, tristezza, amarezza, frustrazione, rabbia… cose spiacevoli da provare)!

Il primo obiettivo che abbiamo è dare senso a ciò che sembra non averlo affatto, ottenendo il riscontro di una nuova narrazione di ciò che colpisce il mio cliente, sostituire il “improvvisamente e senza motivo mi ritrovo senza parola e senza pensiero” con qualcosa di meglio.

Dare senso, già… esattamente che cosa significa dare senso?

In letteratura è noto il filone del Sense Making, ma non è che ci si capisca molto: per noi sistemici, dare senso ha un significato molto preciso, significa individuare attraverso quali connessioni ciò che osserviamo è intimamente collegato alla, e radicato nella, nostra sopravvivenza.

Significa riuscire a leggere con la più grande precisione possibile come il comportamento che osserviamo, frutto della continua elaborazione che i nostri sistemi, i sistemi di cui siamo costituiti, fanno dei codici che guidano ogni nostro più piccolo atto, ogni nostra più piccola azione, sia mirato ad ottenere per noi ciò che aiuta e sostiene la nostra sopravvivenza.

Accettando sin d’ora che per noi, il termine sopravvivenza possa realmente includere tutto, costituirsi come finalità che imperiosamente si impone sovraordinando ogni aspetto della nostra vita, dal più brutalmente “fisico”, dalla ricerca di cibo e acqua, al più (solo apparentemente) frivolo ed effimero, l’acquisto dell’ultimo modello di Jimmy Choo.

Il “teorema” di cui vogliamo costruire la dimostrazione è: il blocco di pensiero e di parola di John O. durante l’esecuzione del compito di presentazione è un atto complesso mirato alla sopravvivenza di John O.

Insistiamo moltissimo su questo punto, e sul correlato che-cosa-non-è: NON è un malfunzionamento, NON è una patologia, NON è un errore, è la migliore risposta che John O. , i sistemi che costituiscono John O. hanno individuato, tra tutte quelle a lui possibili, alla necessità cogente di sopravvivere.

Che questa risposta ci possa sembrare fallimentare è poco o per nulla rilevante, rispetto alla questione, per noi assolutamente primaria, della “sostanza” di cui è costituita quella risposta: ed è proprio affidandoci alla conoscenza della sostanza di cui è costituita la risposta, di John O. e di ogni essere vivente, che possiamo proseguire, nella quasi-certezza (la certezza piena la otteniamo soltanto dopo, ex-post) che troveremo le prove che ci permettono di affermare che ciò che ora ci può sembrare fallimentare, in verità non lo è affatto.

 

Primo compito è la caccia al codice, identificare meglio che possiamo quali codici sono entrati in gioco, e la mia funzione è più o meno quella di un segugio al servizio del mio cliente: seguire piste, tracce, e stanare codici.

Il secondo compito è, utilizzando nuova narrazione come fondamentale riscontro, sviluppare un nuovo codice capace di governare, di integrare in modo più efficace l’attivazione e l’esecuzione dei codici individuati,  poiché non è possibile, sistemicamente, semplicemente “disattivare” i codici ricorrendo alla “volontà”.

La via sicura e non troppo lunga che consente di eseguire il secondo compito, è la chiara e consapevole identificazione dei vantaggi che i codici individuati hanno consentito di ottenere, il quadro, la storia della costruzione di ciascun codice, rendere conto e ragione di come quei codici abbiano fatto il lavoro che dovevano fare, a vantaggio, protezione e salvezza del mio cliente.

 

La direzione della caccia non è casuale: anche se ora non sappiamo come spiegarlo in questo caso specifico, sappiamo però che i codici neurali che sono entrati in gioco hanno costitutivamente l’obiettivo di proteggere la sopravvivenza del mio cliente: si tratta quindi di individuare quali minacce, nell’ambiente reale e nell’ambiente virtuale, si siano presentate.

Perché seguire la pista delle minacce e non quella delle opportunità?

Per ora per stima probabilistica, i primi indizi sembrano convergere sull’insorgere di configurazioni di ambiente sfavorevoli al mio cliente, vedremo.

Il primo a comparire è un codice emotivo generale, comune ad ogni essere umano, che altrove ho definito codice di protezione del rango, i primi indizi sono gli incontri poco importanti, con figure di secondo o terzo piano.