“Conosco la tecnica di somministrazione del feedback negativo, Seven Step, mi sembra buona, su di me ha funzionato, ma con la mia gente non funziona: già al terzo step è difficilissimo ottenere una risposta, al quinto rimangono lì, muti, e non si muovono.
Io aspetto un po’, poi non abbiamo mai tanto tempo, siamo sempre sotto pressione, e così vado dritto al punto e gli dico che cosa è meglio fare.”
Ecco il nostro primo caso: questo è, con pochi aggiustamenti, il racconto, la narrazione che un responsabile di reparto fa al suo capo, a proposito della gestione del feedback negativo, in merito alla adozione di una tecnica specifica, chiamata Seven Step.
Niente di nuovo, la tecnica nominata è di dominio pubblico da alcuni decenni, magari sotto nomi diversi, essenzialmente è un protocollo di intervento manageriale che prevede una sequenza di azioni relativamente specifica, finalizzato a dare un feedback negativo ai propri collaboratori e ad attivare un piano di miglioramento concreto.
Gli step a cui si riferisce il narratore sono rispettivamente finalizzati, il primo, a condividere una ragione solida, un motivo solido alla base del feedback negativo, elemento tanto più importante quanto più il feedback negativo riguarda uno specifico comportamento del collaboratore, ad esempio il diretto ed osservato mancato utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale prescritti e obbligatori , il quinto a ottenere dal collaboratore una proposta, un piano di azione che ottenga il risultato atteso.
Il responsabile a cui si sta rivolgendo il manager si è impegnato in un considerevole lavoro di coaching del suo collaboratore, per questo il manager si sente autorizzato a rivolgersi a lui per risolvere il problema, e il suo capo, dopo aver chiesto alcuni chiarimenti, gli dice la sua:
La tecnica la conosci, le pause, i silenzi e l’ascolto non li hai messi a fuoco del tutto: sono step indispensabili per ottenere che le persone condividano e che facciano proposte. Sul terzo step occorre fare molta attenzione, la buona ragione che motiva e sostiene il feedback negativo deve essere buona e valida per loro, non soltanto per te.
Il capo del manager è un manager, in genere i manager sono persone pratiche e spicce, e il nostro non sembra essere diverso: le indicazioni che fornisce sono del tutto condivisibili, anche se non disponiamo dei dettagli che il nostro manager-coach ha ottenuto dal suo collaboratore-manager.
A quanto pare qui abbiamo un doppio caso, quello del manager che non ottiene i risultati attesi dalla tecnica Seven Step, e quello del Manager-Coach che non ha ottenuto completamente, dal suo collaboratore-manager, l’apprendimento ed il cambiamento di comportamento attesi: ha invece ottenuto un feedback negativo sull’uso del protocollo di gestione del feedback negativo.
La tecnica in questione la conosciamo anche noi, partiamo dal primo caso, in breve il nostro manager ci dice: non perdo tempo a condividere ragioni ovvie, vado al punto, gli dico che cosa NON va bene e che cosa è meglio che facciano.
Siamo abbastanza lontani dalla Helping Leadership, anche se con un po’ di buona volontà possiamo considerare “le buone istruzioni” date dal capo come una forma di aiuto, se non altro a tenersi alla larga dalle rampogne del capo stesso, in fondo basta fare come dice lui. Perché, sennò? Eh sennò continua a rampognare, e magari, se continui a dargli fastidio, prova a buttarti fuori, mica vorrai mettere a rischio il lavoro e lo stipendio?!?
Non sappiamo se questo esercizio del comando ottenga, localmente, il risultato voluto, e in che misura, e certo sarebbe interessante avere il dato: sappiamo però due cose, di qualche importanza. La prima è che questa forma di leadership cessa nel momento in cui il capo non ha più potere sanzionatorio: se le sue rampogne non hanno effetti pratici, ascolto zero.
La seconda è che intercettiamo solo una piccola parte di ciò di cui l’altro, il collaboratore, ha bisogno, lasciando inattivo il resto, e anzi rischiando di alimentare comportamenti conflittuali, più o meno mascherati o nascosti.
Si dice, ed in genere su questo c’è consenso unanime, che a nessuno piace essere comandato, a nessuno piace obbedire: da sistemici, ora intendiamo questa opposizione come congruente effetto d’altro, del bisogno di trovare costantemente prova del nostro buon funzionamento, che prende la forma del bisogno di tenere allineati il nostro ambiente reale e il nostro ambiente virtuale, del bisogno di utilizzare i nostri codici neurali, emotivi e di pensiero, i nostri, non quelli di qualcun altro.
A meno che l’altro non sia un Helper che noi abbiamo autonomamente riconosciuto come tale (e cioè frutto dei nostri codici), ciò che proviene dall’altro non è nostro, e non aiuta a soddisfare le nostre necessità: così obbediamo per evitare sanzioni, che è saggio e prudente, ma difficilmente l’idea dell’altro diventa nostra, l’impegno a realizzarla un nostro momento di soddisfazione, cercato, voluto, difficilmente metteremo in gioco le nostre migliori soluzioni, proporremo spontaneamente, magari fin troppo, alternative e progetti.
E il capo? Il leader? Quello che si sente dire dal suo capo che non ha messo a fuoco silenzio e ascolto, che non ha portato attenzione alla qualità della ragione della reprimand, del feedback negativo? Quello che si trova ad avere a che fare con gente che non fa quel che deve, o fa quel che non deve? Ovviamente anche lui, stessi bisogni di tutti: tecnicamente i collaboratori sono Helper del loro capo, sono lì pagati per aiutare a realizzare la collimazione di reale e virtuale del capo, virtuale che collima (o dovrebbe) con il virtuale del suo capo, su su fino a chi sta in cima alla piramide gerarchica.
Il feedback negativo al collaboratore è un anello di una catena che non inizia quando il collaboratore fa quel che non deve o non fa quel che deve, inizia, per il capo, dall’emergere della evidenza che, egli, il capo, ha fallito: i suoi codici non sono stati abbastanza efficaci da impedire che si producessero risultati insoddisfacenti, da realizzare la collimazione tra obiettivo (configurazione di ambiente virtuale) e risultato (configurazione di ambiente reale).
Il capo è alle prese con un feedback negativo che riguarda la bontà dei suoi codici, emotivi, operazionali, di pensiero simbolico, ed il suo sistema nocicettivo segnala perentoriamente che non ci siamo, che c’è pericolo, ci sono minacce alla sopravvivenza.
Occorre trovare una soluzione adeguata a questo, questo è il primo problema da risolvere: le soluzioni possono essere diverse, dal punto di vista del capo, dal negare che l’avvenimento sia significativo (e vabbè, per una volta non ha indossato i DPI!, e che sarà mai!), allo spostare il fuoco sul collaboratore (è una testa di rapa, non capisce, è lui che non funziona, i miei codici sono ottimi!), al riprendere la questione dal suo reale inizio.
E cioè dalla evidenza che egli, il capo, NON è stato riconosciuto come Leader (Helper) da parte del suo collaboratore, e vedere che cosa si può fare per cambiare la situazione.