Il Silenzio

Conquistato il Postulato del Meglio, (ciascuno non può che fare del proprio meglio in ogni istante della sua vita) la strada dovrebbe essere ora in discesa, il più è fatto.

La questione diventa: che cosa possiamo fare, e come, per riuscire ad ottenere che l’altro, sistema complesso quanto noi, autodeterminato ed autopoietico come noi, faccia quello che va bene anche per noi.

E mentre facciamo questo, ottenere dall’altro il riconoscimento di Helper, in modo da alimentare il suo “stabilizzatore di rotta”, costituendoci per l’altro guida e riferimento affidabile, almeno nell’ambito limitato delle cose che facciamo insieme, anche e soprattutto quando non siamo fisicamente in sua compagnia…

La più difficile e importante, predisporre il piano emotivo di interazione, l’abbiamo conquistata, ora siamo in grado di governarla: sta facendo del suo meglio, ce la mette tutta, impossibile avercela con l’altro per questo… e poi?

La tecnica Seven Step può funzionare, una volta conquistato il Postulato del Meglio… dopo l’accoglienza positiva, dritti al punto, in poche parole, semplici e ben scelte, indicare che cosa non è accettabile, e poi fermarsi, non dire altro, non pensare altro, non fare altro, restare fermi, vediamo che cosa fa l’altro.

Perché l’altro qualcosa fa, nel suo ambiente virtuale i sui sistemi lavorano a pieno regime, nell’ambiente reale condiviso con noi può restare immobile e silenzioso, rovesciarci addosso le decine di ragioni, giustificazioni del proprio operato: in termini generali, l’altro ora è alle prese con l’allarme scattato per il suo mancato buon funzionamento, e può averci a che fare in molti modi.

Quale parte abbiamo noi in quello che gli sta accadendo ora, è una delle cose a cui l’altro, chiunque sia, deve necessariamente rispondere: può essere così agitato e preoccupato da non accorgersi nemmeno del piano emotivo su cui ci troviamo noi, può leggere ogni dettaglio dell’ambiente reale come minaccia, e reagire di conseguenza.

Occorre tempo, all’altro occorre tempo, ed è di aiuto se stiamo fermi, non mettiamo in gioco altre cose, stiamo fermi ed aspettiamo, consapevoli di quanto inquietante e tagliente possa essere percepito il nostro silenzio, la nostra quiete… e quanto proprio questa quiete, questo silenzio spinga l’altro a fare qualcosa, possa addirittura aumentarne il livello di agitazione.

È un rischio calcolato, almeno la prima volta che usiamo questa “tecnica”, l’altro ancora non sa che strada seguiremo, e, a meno che non sia un esperto della materia, nemmeno immagina che ci possa essere più di un modo per sbrogliare questo tipo di matasse: lo schema base della tecnica è applicabile a sette diversi “problemi” classici della gestione della interazione con i collaboratori, e dopo un po’ di volte che lo vede eseguire, l’altro sa fin dall’inizio dove andremo a parare e come.

Non la prima volta, ovviamente, occasione che richiede da parte nostra una preparazione particolarmente accurata.

Restiamo in paziente osservazione per tutto il tempo necessario, necessario all’altro a completare la sua elaborazione, un tempo si diceva “in ascolto”, ma osservazione è meglio, comprende l’ascolto, dell’altro e di noi stessi, delle nostre voci, comprende l’osservazione delle azioni fisiche, delle posture: il punto chiave è stare fermi, mantenere la posizione emotiva consentita dal Postulato del Meglio, qualunque cosa ci arrivi dall’altro è frutto del suo meglio.

Prima di attivare lo step successivo, occorre attendere fino a quando l’altro ha terminato la sua prima elaborazione di quanto sta accadendo.

Come facciamo a capire quando l’altro ha terminato la sua prima elaborazione di quanto sta accadendo? A volte è facile, l’altro inizia subito a commentare, obiettare, giustificare, inveire, e dopo un po’ smette, tace: non che necessariamente l’elaborazione dell’altro cessi quando smette di raccontarci come stanno le cose, ma il suo silenzio in genere indica che per il momento il contrattacco è sufficiente.

Il nostro silenzio, subito successivo alla breve e semplice indicazione di che cosa non è accettabile (attenzione, solo del che cosa, non del perché), non è una domanda, è silenzio, non abbiamo chiesto conto e ragione di nulla, siamo rimasti in silenzio.

Ma quel silenzio è una domanda, muta, formulata in modo non troppo preciso, e forse non siamo nemmeno noi a formularla, ma la vita stessa: l’altro si sente dire che quello che ha fatto è inaccettabile, dietro la inaccettabilità si trova una minaccia, nell’ambiente reale, magari un malfunzionamento dei suoi sistemi, codici neurali inadeguati…occorre rispondere alla minaccia.

E farà del suo meglio per rispondere adeguatamente, mentre noi restiamo fermi, in paziente osservazione.

Poi a sua volta tace. E anche quel silenzio è una domanda, muta, magari neanche rivolta a noi, non possiamo saperlo con certezza, non abbiamo accesso diretto e totale al suo ambiente virtuale… ecco, lì possiamo provare a muovere il terzo passo, che riguarda la ragione blindata che rende inaccettabile ciò che è stato dichiarato da noi come inaccettabile.

Per dirla in termini romantici, questo è il cuore della tecnica: il nostro intento è, autenticamente, proteggere il nostro interlocutore da minacce alla sua sopravvivenza, alla sua riuscita, puntando a modificare il codice che l’altro ha usato per individuare quale azione compiere e che, anche se frutto del suo meglio, ha prodotto un risultato inaccettabile.

A volte è molto meno facile, il flusso delle parole dell’altro sembra inarrestabile, infinito, o, peggio, al nostro silenzio l’altro risponde con un silenzio impenetrabile, non un gesto, non un moto, non una reazione del volto.

Il flusso apparentemente infinito va tollerato. E con il mutismo come ce la caviamo?

Non lo so. Io aspetto un po’, anche un minuto (ed è lunghissimo, provare per credere), prima di muovermi… e poi provo a chiedere: che cosa pensi?

In genere funziona. A volte no, il silenzio impenetrabile continua. In quel caso come ce la caviamo? Di nuovo, non so, io aspetto ancora, anche un minuto (secondo me protrarre il silenzio oltre il minuto rischia di trasformare l’azione in una sfida, non ci serve), e poi provo a dire qualcosa sul silenzio, sul suo silenzio, del tipo, abbiamo un problema e te ne stai zitto zitto (zitta zitta), come mai?

Dentro al silenzio dell’altro, in risposta al nostro silenzio, ci può essere di tutto.

Impossibile indicare, qui o altrove, tutte le configurazioni che si possono produrre, ed il modo puntuale per averci a che fare: occorre riuscire ad arrivare insieme a identificare e condividere la buona ragione blindata che rende inaccettabile ciò che è stato dichiarato da noi come inaccettabile, e che necessariamente deve essere qualcosa che minaccia sopravvivenza e successo dell’altro.

Come ci arriviamo, il piano emotivo che manteniamo, che cosa identifichiamo e condividiamo con l’altro sono il primo importante ingrediente che può permettere all’altro di riconoscerci come Helper, e di accettare volentieri la nostra guida.

Quanto tempo richiede agire in questo modo? Qualche minuto, le prime volte… e poi sempre meno.

Ne vale la pena?


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