Certo il pur piacevole cinguettio non colma la comprensione della narrazione, restiamo nel campo dei segnali, che non è poco, ma non ci basta.
Come arriviamo alla narrazione, dal punto in cui siamo arrivati? La più semplice narrazione che noi incontriamo, anche costituita da una sola parola[1], richiede ancora altri sistemi ed altri ambienti: il nostro ambiente reale non è sufficiente.
Per poter rendere conto e ragione anche della più semplice narrazione siamo costretti ad introdurre un altro ambiente, noto a tutti noi, ambiente che esiste nelle nostre scatole craniche, e che dobbiamo necessariamente chiamare ambiente virtuale.
So bene che corriamo il rischio di vederlo confondere con quegli ambienti, o meglio, con quelle configurazioni di ambiente generate dalle nostre moderne macchine elettroniche: tuttavia essi sono reali, su di essi ha presa lo stesso sistema sensoriale che utilizziamo per avere a che fare con il “mondo reale”.
L’unico vero ambiente virtuale è quello che ciascuno di noi si ritrova per dotazione genetica, proprietà emergente del sistema neurale, ambiente rispetto a cui la nostra specie ha sviluppato sistemi per averci a che fare, posso anticipare con nostro enorme profitto e vantaggio.
Della esistenza del nostro ambiente virtuale, unico per ciascuno di noi, ciascuno di noi ha innegabile e diretta conferma sin dai primissimi mesi di vita: nel corso dei secoli ha ricevuto nomi diversi, molti dei quali hanno generato confusione, a cui qui cerchiamo di porre qualche rimedio.
Siamo talmente abituati a viverci dentro, è talmente “spontaneo” viverci dentro che pochissimi si rendono conto della meraviglia in cui si trovano, ancora meno accettano facilmente che, per definizione, la nostra intera vita cosciente, per come è comunemente intesa, avvenga lì dentro.
Pochissimi riescono a tollerare di pensare che la nostra cosiddetta realtà sia il frutto dell’incessante lavoro che ciascuno di noi svolge nel proprio ambiente virtuale, e solo con grande fatica riusciamo a distinguere i due ambienti in cui costantemente e simultaneamente viviamo, molto più e molto meglio che una doppia vita.
Se l’ambiente reale, come è facilmente dimostrabile, per ciascun vivente coincide con l’insieme delle azioni salvifiche che può svolgere[2], l’ambiente virtuale che cosa è? Per quale ragione la nostra specie ha selezionato e trasmesso a ciascuno di noi questa meraviglia?
A voler essere puntigliosi, e noi lo siamo, la distinzione e l’accoppiamento di sistema e ambiente è un artificio: il flusso della nostra esistenza si produce come unità, tutto insieme, ed anche accettare che si dia, ci sia, che “le cose” avvengano entro una scansione temporale è un azzardo.
Non possiamo davvero essere sicuri che esista una cosa che si chiama tempo, ma siamo abbastanza bravi a manipolare le cose secondo quella che per noi è una scansione temporale, a distinguere ciò che va prima da ciò che va dopo, a compiere correttamente le azioni che sono appropriate nel prima e nel dopo per ottenere ciò che sostiene la nostra sopravvivenza.
Ma che esista un prima e un dopo, indipendente da noi, da noi esseri umani, non potremo mai dimostrarlo. A noi va bene così, questo modo per noi funziona meglio di altri, sempre e comunque nella direzione di garantirci (più che si può e meglio che si può) la sopravvivenza.
Anche ora, per riuscire a condividere queste idee, ricorro ad una distinzione artificiale, mentre (ed anche “mentre” è solo una opzione della nostra configurazione sistemica) la mia esistenza, come quella di tutti, fluisce indisturbata verso quella che noi abbiamo imparato essere, per noi, la sua conclusione.
Da una parte ci siamo noi, e dall’altra l’ambiente (meglio, gli ambienti) in cui viviamo, tra noi (sistemi) ed i nostri ambienti si produce, esiste una interazione continua: si produce? Ma chi o che cosa la produce? La semplice esistenza di una, per noi, evidente interazione non basta, naturalmente, è che più in là di così non possiamo andare.
Dall’andamento di questa interazione, della interazione tra noi e il nostro ambiente, dipende la nostra vita e la nostra morte: se non riusciamo a governare l’interazione tra noi ed il nostro ambiente reale, fisico, in modo da ottenere nutrimento, da proteggerci da ciò che fisicamente ci nuoce, moriremo, cesseremo di vivere.
Il nostro ambiente virtuale non è una semplice “copia” dell’ambiente reale, del resto così come l’ambiente reale, l’ambiente che, come si dice, circonda il nostro organismo, non è, in sé, come è per noi: il nostro ambiente reale è una traduzione, correlata, generata dal nostro sistema sensoriale e dal nostro sistema neurale.
Il nostro ambiente virtuale, dicevo, è una proprietà emergente del nostro sistema neurale, costituito, come l’ambiente reale, dalle azioni salvifiche che possiamo eseguire: il sistema principale che ha come ambiente il nostro ambiente virtuale lo chiameremo, per comodità, Sistema Pensiero.
Il Sistema Pensiero è costituito dall’insieme integrato delle azioni salvifiche che possiamo compiere per modificare la configurazione dell’ambiente virtuale.
Questo passaggio è critico e delicato: il nostro ambiente virtuale, generato dal nostro sistema neurale, proprietà emergente del nostro sistema neurale, lo costituiamo come ambiente di una ulteriore proprietà emergente del nostro sistema neurale, che chiamiamo Sistema Pensiero.
La “materia” di cui sono costituiti Ambiente Virtuale e Sistema Pensiero è la stessa: si tratta di codici neurali.
Anche se ad oggi non siamo (e per lungo tempo ancora non saremo) in grado di identificare esattamente come funziona esattamente, come è “scritto” il codice neurale, ne sappiamo abbastanza per poter contare sul fatto che qualunque nostra azione (reale e virtuale) è guidata da “istruzioni” neurali.
Né più e né meno delle nostre possenti macchine cosiddette automatiche: il nostro comune personal computer fornisce una ottima approssimazione a quanto ci serve per poter accogliere con relativa facilità questa nuova prospettiva.
Quello che stiamo leggendo ora su un monitor o su un display è un effetto generato dal dispiegamento di un codice alfanumerico, codice alfanumerico che in questo momento governa il funzionamento dell’apparato che stiamo utilizzando, codice scritto da un programmatore ed integrato nella macchina che stiamo utilizzando.
Il fatto che stiamo leggendo è effetto di azioni complessissime in corso, guidate, governate da codici neurali integrati nel nostro sistema; dato che in seguito ci riferiremo ancora a questi nostri specialissimi codici, per maggiore chiarezza espositiva li chiameremo neurogrammi, plessi-sequenze strutturati e stabili di istruzioni neurali che guidano le nostre azioni.
Era proprio necessario che i nostri progenitori sviluppassero un ambiente virtuale?
Onestamente non saprei rispondere, mi limito a constatare che disporre di un ambiente virtuale si costituisce come formidabile vantaggio competitivo per la nostra specie, poiché ci fornisce la possibilità di generare azioni virtuali (predisporre neurogrammi che potremmo usare in seguito) senza correre alcun pericolo, di fare esperimenti in sicurezza, di manipolare spazio e tempo a nostro piacimento e non solo di subirli, come è inevitabile nell’ambiente reale.
E quindi di intervenire, di agire nell’ambiente reale per modificarlo in modo da ottenere, con molto maggiori probabilità di successo, grazie allo “studio virtuale”, ciò che serve alla nostra sopravvivenza.
[1] Naturalmente non consideriamo parola quella pur emessa da alcune specie di uccelli, che resta una, pur apprezzata, variante del semplice segnale.
[2] Parafrasando Watzlavick, non possiamo non agire, almeno finchè siamo vivi: anche la non-azione è azione.